AGGIORNAMENTO
30.01.2001

RACCONTI DI MONTAGNA
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PER NON DIMENTICARE


Guerra di Liberazione: 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945. Questi sono gli anni più duri che la Valsesia ha vissuto nella sua storia: sparatorie, combattimenti, rastrellamenti, fucilazioni, case bruciate per ritorsione, civili impiccati per rappresaglia, miseria e fame per tutti. Procurarsi da mangiare era l’assillante impegno quotidiano ed ogni mezzo era valido per farlo.
E tutto questo per non dimenticare.
La dove il Sesia incomincia ad affacciarsi alla pianura ci sono ampie baragge e diverse lanche formate dal fiume. Le lanche sono ancora piene di pesci, basta una bomba a mano per fare un’abbondante pesca. Il pesce pulito e messo sotto sale costituisce un elemento determinante per la propria sopravvivenza.
Non sono delle classi di leva. I miei documenti sono in regola, non mi trovo nella necessità di fare una scelta: fascisti da una parte, partigiani dall’altra.
Esco da casa per andare a pescare. Nella baraggia sono intercettato da una pattuglia di fascisti. Non mi chiedono i documenti, non mi perquisiscono. Mi dicono che sono un traditore, una spia e incominciano a picchiarmi con rabbia. Pugni, pedate, sono colpito ripetutamente col calcio del fucile, sanguino dal naso e dalla bocca, non mi reggo più in piedi, cado a terra. Un fascista mi trascina per i piedi ad un ruscello e mi mette la testa sott’acqua. Mi manca il respiro, sento l’acqua che mi entra nei polmoni strozzandomi la gola. Mi tirano fuori dall’acqua e mi cacciano contro una pianta. “Mettiti li che ti fuciliamo”, mi grida un fascista. Sento il rumore secco dei caricatori che mettono i colpi in canna, i colpi che dovranno uccidermi.
Volano due bombe a mano Sipe e si scatena l’inferno.
E tutto questo per non dimenticare.
Quando il silenzio ritorna nella baraggia del Sesia mi trovo supino a terra. Mi metto sui gomiti, sanguino ancora dal naso, dalla bocca e dalle ferite. L’erba sotto di me è intrisa dal mio sangue. Mi metto in piedi a fatica e barcollando mi allontano dirigendomi verso la montagna. Alcuni uomini armati mi raggiungono. Hanno il fazzoletto rosso al collo: sono partigiani. Mi prestano le prime cure, poi mi aiutano a raggiungere un luogo sicuro sul Monte Briasco. Qui vengo curato da un medico, impiego un mese per riprendermi completamente, ma alcune fratture e ferite me le porterò dietro per il resto della vita. Al seguito di un gruppo di partigiani arrivo ad Artò. Vedo staffette che vanno e che vengono per mantenere il collegamento fra i vari reparti. Sono giovani armati fino ai denti, che conoscono bene la montagna e che si muovono, quasi sempre, di corsa. Gruppi di partigiani si allontanano per alcuni giorni per compiere azioni di guerriglia contro i presidi fascisti o tedeschi.
Un giorno un comandante mi dice che devo decidermi se tornare a casa o se unirmi ad un reparto di partigiani. Se torno a casa i fascisti mi fucilano e questa volta hanno una motivazione per farlo. Il comandante dice che devo procurarmi un’arma. Mi da un pugnale e mi propone di andare a Civiasco o a Varallo, bloccare un fascista e portargli via l’arma. È terribile quello che dovrò fare, ma non ho altra scelta.
E tutto questo per non dimenticare.
Due giorni dopo ritorno dal comandante, ho un Mitra Beretta con relativo munizionamento. Restituisco il pugnale e ottengo in cambio un fazzoletto rosso. Partecipo a diverse azioni. Imparo a mettermi al riparo e a sparare solo quando necessario. Ma imparo anche un’altra cosa. Chi va in combattimento ha sempre paura, spara per primo per uccidere e non essere, in questo modo, ucciso dai nemici: è una sorta di legittima difesa. I tanto decantati eroismi di combattenti che si immolano per la Patria o per la bandiera sono solo ipocrisie.
E tutto questo per non dimenticare.
Al termine di una azione facciamo alcuni prigionieri. Uno di questi è un ragazzo della mia età, lo guardo fisso negli occhi, è spaventato, non sa quale sorte lo attende. Se non ci fosse la guerra avremmo giocato a pallone assieme. Ma adesso un abisso ci divide, lui ha la camicia nera, io il fazzoletto rosso. Entrambi siamo vittime, senza scampo, di una guerra scatenata dalla sete di potere e dagli interessi economici di menti perverse e senza scrupoli.
Poi un giorno tutto finisce in uno sventolio di bandiere tricolori e di bandiere rosse. La gente smette di odiarsi, incomincia la ricostruzione.
Gli ideali che la storia attribuisce al movimento di liberazione riguardano la libertà di pensiero e di parola, eguaglianza di diritti e doveri, giustizia sociale. L’Italia che ne uscirà non è proprio quella per la quale i partigiani hanno combattuto, ma questo lo valuterà la storia.
Per quello che mi riguarda l’esperienza della Guerra di Liberazione ha inciso il mio carattere modificandone alcuni aspetti in modo irreversibile, per me non sarà più come prima.
E tutto questo per non dimenticare.

PER NON DIMENTICARE

 PARTIGIANI A MILANO-A

PARTIGIANI DELLA BRIGATA

R. SERVADEI

A MILANO

(fotografia ricavata dal libro "Il Monte Rosa è sceso a Milano" di Pietro Secchia e Cino Moscatelli)